«Da dove partiamo? Partiamo dall’abbandono scolastico, che è il crocevia di tutti i problemi del nostro Paese». Matteo Lancini è uno psicologo che ha dedicato gran parte della sua vita professionale allo studio dei giovani: oggi insegna all’università (Bicocca e Cattolica, a Milano), svolge attività terapeutica, è presidente della Fondazione Minotauro, scrive libri: il suo ultimo lavoro si intitola “L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti”. Per questo è un interlocutore ideale per provare a dare un senso e un confine alla parola giovani, con uno sguardo alla scuola e uno al mondo del lavoro, rovesciando, da subito, tanti luoghi comuni.
Un chiarimento, innanzitutto: che cosa intendiamo per giovani? «Non metterei confini precisi – risponde Lancini – quella che io indago è una trama evolutiva che va dagli adolescenti ai giovani adulti». Per chi invece, per necessità professionali, è abituato a ragionare in termini di coorti generazionali potremmo dire che parliamo di qualcosa che sta a cavallo fra i Millennial (indicativamente 1980-1995) e la Generazione Z, quella dei nati tra la metà degli anni ’90 e la fine degli anni 2000.
Non è un paese per maschi
Partiamo dall’abbandono scolastico, dunque, inteso come problema in sé e come paradigma di altri problemi. «L’Italia – spiega Lancini – è da anni uno dei paesi europei con la più alta dispersione scolastica. Ed è un fenomeno prevalentemente maschile: con una battuta potremmo dire che “la scuola italiana non è un paese per maschi”. La scuola primaria italiana è quel posto dove i maschi prendono le note perché si muovono. Capito? Si muovono. E cosa dovrebbero fare?». Il disastro, in termini di abbandono, avviene poi al biennio delle superiori: uno su tre di coloro che vengono bocciati smette di andare a scuola. «E così si produce un verdetto sommario: perdiamo migliaia di ragazzi di quindici anni che non rientreranno più nel sistema scolastico». Naturalmente la distribuzione è disomogenea: chi ha alle spalle una famiglia più colta, benestante, attenta all’educazione ha più facilità a reinserirsi; al contrario, chi parte da situazioni di marginalità economica e sociale vede la sua situazione peggiorare. Non a caso, è di settembre 2021 un rapporto della Fondazione Agnelli secondo cui la scuola media italiana è un luogo dove «gli studenti imparano meno dei loro coetanei europei e degli altri paesi avanzati» e le «disuguaglianze sociali e i divari territoriali si accentuano rispetto alla scuola primaria». Insomma, una scuola che non solo non aiuta a colmare i gap sociali, ma che finisce per accentuarli. Ma come siamo arrivati a questo punto?
Una scuola per narcisisti
«Occorre fare qualche passo indietro», spiega Lancini. «Siamo passati dalla prevalenza un tipo psicanalitico edipico, cioè inserito in una struttura gerarchica chiara in cui il potere sta saldamente nelle mani dei vecchi e i giovani lottano per sostituirsi o per ribellarsi, a uno narcisistico. Attenzione: narcisistico non è un giudizio, o peggio un insulto, ma è una precisa categoria psicanalitica». Il tipo narcisistico ha caratteristiche proprie, ci spiega Lancini: è un bambino adultizzato, allevato in un ideale di bellezza e popolarità, che diventa un adolescente infantilizzato appena qualcosa va storto. «Pensiamo a come alleviamo i nostri figli: mentre una volta i bambini e i ragazzi dovevano lottare per vedere riconosciuti i loro gusti, oggi li assecondiamo in modo febbrile, li incoraggiamo, li iscriviamo a qualsiasi corso per coltivare qualsiasi parvenza di talento. In altri termini, la famiglia ti dice che devi essere felice, i media, social e non, ti dicono che devi essere bello e popolare, per usare un termine molto in uso fra gli adolescenti. Dopodiché arrivano le mortificazioni: non solo il tuo corpo spesso non segue l’ideale, ma la scuola, che è rimasta legata a schemi edipici, ti boccia, ti esclude. Io credo che serva una scuola adatta al soggetto narcisista». Per esempio? «Per esempio abbiamo criminalizzato internet, i social media. “Stai sempre a guardare il telefonino!”. Ma chi ha costruito internet e gli smartphone? Noi, gli adulti, non certo i ragazzi. Internet non deve fare paura: io credo in una scuola sempre aperta e sempre connessa, come un nodo di una rete di conoscenza, non barricata contro il mondo esterno. Così si fa inclusione vera, così si supera il divario digitale, che esiste e che la Dad ci ha ricordato drammaticamente».
Meglio morti e famosi?
Matteo Lancini parla in modo torrenziale, appassionato: eppure ogni parola è scelta con cura, e colpisce con precisione a tratti dolorosa. Perché il dolore dei giovani è da sempre una costante dei suoi studi e negli anni Lancini non si è risparmiato, occupandosi di temi difficili e scabrosi come il ritiro sociale degli adolescenti (titolo di un suo volume del 2019) e persino il suicidio. «Di fronte a questo scenario ideale di autorealizzazione, alla cui costruzione partecipano gli stessi adulti, il fallimento non è previsto e porta alla vergogna e di qui all’autoesclusione, al ritiro sociale, appunto». Ancora peggio: «In un mondo in cui conta avere audience, è meglio essere morti e popolari che vivi e invisibili». Sono parole che mettono i brividi, ma che è meglio conoscere con chiarezza cristallina per poter fare i conti con le nuove generazioni. «Non mi stanco di ribadirlo: in una società basata sull’apparire, il fallimento porta a un attacco al sé, che si concretizza nei disturbi alimentari, negli atti di autolesionismo, nei casi estremi nel suicidio o nei pensieri suicidi. Il corpo che arriva non piace, non è quello sognato? Lo modificano. Da qui i fenomeni come i tatuaggi e persino i tagli».
Al lavoro!
Uno dei dati più sconcertanti per chi studia la società italiana è quello dei Neet (Not in education, employment or training), un altro triste primato: secondo gli ultimi dati Istat i Neet sono il 23 per cento dei giovani, e le cose vanno peggio per le donne, gli stranieri, il Sud. Un’altra conferma di un Paese incapace di includere i giovani, di creare un ponte fra scuola e lavoro e spesso – come abbiamo visto – anche all’interno dello stesso percorso scolastico. «È proprio così. Il ragazzo bocciato spesso sparisce, esce dal circuito scolastico, esce dall’economia», ribadisce Lancini.
L’economia, appunto. Cioè il lavoro. Come si può costruire un legame, un patto professionale con le generazioni che si affacciano (o che sono entrate da poco) al mondo del lavoro, e che – come abbiamo visto – hanno ideali e aspettative talmente diverse da quelle di chi lavora da venti, trent’anni che a volte è difficile capirsi? «Fin qui abbiamo parlato prevalentemente di difficoltà – risponde Matteo Lancini – ma naturalmente questi ragazzi hanno sviluppato altre competenze, di cui occorre tenere conto: innanzitutto è incredibile quanto poco siano arrabbiati. Pensiamo al Covid: abbiamo detto a degli adolescenti di stare quasi due anni in casa. Cosa sarebbe successo se lo avessero detto a noi? O alla generazione precedente alla nostra? La rivoluzione, come minimo. Invece loro sono stati pacifici, hanno accettato la situazione. Di una cosa, in ogni caso, sono certo: la pandemia ha innescato delle reazioni di lungo termine di cui ancora non conosciamo i confini, ci vorranno anni per capire che cosa è successo».
Responsabilizzare, motivare
E sul lavoro, a quali messaggi rispondono queste nuove generazioni? «Inutile chiedere sacrificio – spiega Lancini – quando abbiamo visto che questa leva non funziona più. Il soggetto edipico è sacrificale, quello narcisistico vuole essere parte costitutiva del processo, vuole co-costruirlo. I giovani chiedono di essere responsabilizzati e motivati; chiedono un ruolo e chiedono in qualche di contribuire a determinarlo: il sé conta più dell’altro. Ovviamente non si sta parlando di cedere il comando delle aziende a dei ventenni, sia chiaro: la gerarchia, la verticalità è indispensabile ma va costruita attraverso un meccanismo di ingaggio e di cooptazione. E poi i giovani, come abbiamo visto, chiedono di apparire, di essere riconosciuti, e questo è un aspetto che può rivelarsi molto utile nella nuova organizzazione aziendale». Basti pensare, in effetti, all’enorme successo che ottengono i programmi di company advocacy e alla grande disponibilità dei dipendenti a impegnarsi come ambassador della propria azienda; un modello in cui sembrano confluire tutti i temi affrontati in questa conversazione: l’esposizione mediatica diventa uno strumento di collaborazione e – appunto – di co-costruzione di un ruolo riconosciuto. Ma quindi l’appartenenza esiste, contrariamente a una vulgata che vorrebbe i giovani più scettici e infedeli rispetto alle generazioni precedenti? «Forse i giovani non sono infedeli, ma di certo c’è meno pazienza, il successo deve essere immediato: del resto viviamo in un mondo complessivamente più veloce, che ci ha abituati a ridurre le attese, che si tratti di ascoltare un brano musicale, comprare online, ordinare il cibo. L’appartenenza tuttavia esiste ed è una leva forte se è stata costruita seriamente, con la fiducia, se il giovane dipendente si sente veramente un rappresentante della sua azienda. È il punto di arrivo di un percorso, non un’operazione pubblicitaria».