Qualche giorno fa ho letto un post su Linkedin che raccontava più o meno quanto segue. L’autrice, una professionista delle risorse umane (se legge queste righe mi contatti e la ringrazierò di persona), aveva ricevuto la richiesta di esaminare il cv di una giovane candidata: il documento che le era arrivato, però, era scarno, scritto male, senza una riga di accompagnamento. Il primo impulso, in un caso come questo, sarebbe di “archiviarlo”. Tuttavia la selezionatrice si era fatta forza, aveva risposto alla giovane candidata spiegandole che no, così non andava, che bisognava articolare meglio, accompagnare il cv con qualche informazione personale, generare un po’ di empatia. La ragazza si era scusata, spiegando che era il suo primo contatto con il mondo del lavoro e che – davvero! – non aveva idea di come impostare la sua comunicazione. Ne era nato un lavoro congiunto che aveva portato alla stesura di un cv e di una lettera di accompagnamento finalmente efficaci. Tutto è bene quel che finisce bene.
Quello che farete
Da quando mi capita di insegnare (ormai una ventina d’anni), una sola cosa non ho mai cambiato: un’esercitazione in cui faccio scrivere una lettera rivolta a un potenziale datore di lavoro. I risultati sono istruttivi. Qualcuno la spara grossa e da del tu a Jean Todt, certo. Ma la maggioranza degli studenti elenca nomi: il proprio, quello dell’ateneo, del corso di laurea, dell’indirizzo, della tesi, intasando oltre metà dello spazio di dettagli burocratici. Lo leggono in classe, io fingo di addormentarmi, loro ridono, e piano piano cerchiamo di arrivare al punto: raccontate chi siete, che cosa sapete fare, e soprattutto che cosa vi piace, dal momento che – se siamo all’università – la vostra forza non è quello che avete fatto, ma quello che farete, o che fareste se ne aveste la possibilità.
Show, don’t tell
È un lavoro molto più difficile di quanto si pensi. I ragazzi sono condizionati da un tono formale, impersonale, trattenuto. Non so chi glielo abbia insegnato: in parte temo proprio la scuola (in qualche caso me lo hanno proprio detto: “Ma prof, ci sta dicendo di fare il contrario di come ci hanno insegnato!”). Ma più in generale è l’Italia che, appena la posta si alza, assume un meraviglioso tono da cancelleria borbonica, che già Manzoni metteva in parodia nell’Ottocento. Basta un’assemblea di condominio per leggere costruzioni in forma impersonale (“si comunica”) degne di un governatore spagnolo del Seicento.
Ma torniamo ai nostri giovani alle prese con il primo curriculum: non siate reticenti, anzi. Dite, raccontate, anzi, meglio, se possibile fate vedere: show, don’t tell, si dice nel linguaggio della scrittura. Cioè non “amo gli animali”, ma “collaboro con una Onlus che assiste i cani randagi”; non “sono un grande appassionato del Milan di tutte le epoche”, ma “ho imparato ad amare persino i lanci di Ray ‘Goniometro’ Wilkins”: così che chi vi legge veda la vostra passione e la vostra competenza. Meno aggettivi e avverbi, più sostantivi. Cose che sapete, che avete fatto.
In tempi in cui le aziende sembrano finalmente avere capito l’importanza dell’employer branding, forse bisognerebbe pensare un po’ allo student branding, che è poi – a pensarci bene – fra le attività di marketing più importanti della vita di una persona. Se interessa, io ci sono.