Nel mondo della comunicazione interna è la parola del 2017: ambassador. Che cos’è? È un dipendente che, opportunamente selezionato, motivato e formato, contribuisce a diffondere messaggi in qualche modo allineati agli obiettivi dell’azienda. Ma non solo.
Di chi (non) vi fidate?
Partiamo da un dato: la fiducia è in crisi. È in crisi la fiducia nelle istituzioni, nei governi, persino nelle Ong. E nelle imprese. Pur in un momento di relativa pace e prosperità (la ripresa dopo la grande crisi dei subprime è nei numeri, persino in Italia) il mondo è dominato dalla paura, che genera sfiducia. Lo spiega bene una ricerca di Edelman, chiamata Trust Barometer, che nell’edizione 2017 usa toni allarmati. E all’interno di questa generale crisi di fiducia, nelle aziende la “spokeperson” ritenuta più affidabile è il semplice dipendente, che sopravanza – in alcuni casi largamente – tutti gli altri attori: manager, comunicatori, accademici. La sfiducia negli esperti non è di per sé una buona notizia, ovviamente. Ma proprio per questo occorre farci i conti.
La parola all’ambassador
Le aziende più avanzate sul fronte della comunicazione e della gestione delle risorse umane una risposta l’hanno trovata: sono i corporate ambassador. Un gruppo di dipendenti che si fa portavoce di alcune delle istanze dell’azienda, nei due sensi: raccogliendo pareri e indicazioni dai colleghi, per sottoporli al management e ai comunicatori; e, al contrario, contribuendo a divulgare temi aziendali (o di settore). In tutto questo, i social media rivestono un ruolo decisivo come strumento di distribuzione. Si calcola che in un’azienda con una buona politica di employee advocacy la visibilità dei post sui social media sia in media dieci volte più ampia rispetto a quella della sola pagina aziendale, a parità di contenuti.
Ma che cosa ci guadagno?
Che cosa ci guadagnano le parti in causa? Per l’azienda la risposta sembrerebbe più ovvia: una rete capillare e affidabile che divulga contenuti e idee favorevoli, innescando una spirale positiva che – se ben gestita – va a vantaggio del clima interno, della capacità di attrazione di risorse dall’esterno, della reputazione presso media e stakeholder. E l’ambassador? Verrebbe voglia di citare Tony Blair quando in un discorso del 2001 disse che le priorità del governo erano “education, education, education”. Se si vuole giocare a questo gioco, insomma, agli ambassador bisogna offrire certamente riconoscimento, trasparenza, coerenza. E formazione: sui nuovi media (che molti usano e pochi conoscono), sulla scrittura efficace, sull’uso delle immagini e dei video, sul public speaking. Come nella “vera” carriera diplomatica, se vogliamo ambasciatori capaci dobbiamo investire su di loro: potrebbe addirittura ristabilirsi un po’ di quella fiducia che oggi manca così tanto.