L’ossessione del tubo

Le aziende corrono verso il digitale: ma finiscono per concentrarsi più sull’infrastruttura che sul contenuto valoriale. E così sprecano energie e perdono opportunità di fare veramente branding

Nel giro di poche ore, all’inizio di maggio, UniCredit ha dichiarato che non utilizzerà più i social media di Mark Zuckerberg, privilegiando i media proprietari “per garantire un dialogo riservato e di alta qualità”; mentre curiosamente lo stesso Zuckerberg in una conferenza per sviluppatori chiamata F8 annunciava che “il futuro è privato” e prefigurava un nuovo Facebook molto più attento alla privacy.
 Insomma, oggi la comunicazione si svolge di fatto su piattaforme digitali sempre più articolate, complesse, contraddittorie, in evoluzione. E le aziende corrono a presidiare (e influenzare) questi spazi digitali così profondamente integrati nella nostra vita quotidiana. Cosicché “digitale, ambassador, influencer” sono le parole che risuonano in qualsiasi riunione di comunicazione e marketing e che ora iniziano a planare anche sui tavoli delle risorse umane.

Le piattaforme digitali, tuttavia, sono una meravigliosa infrastruttura. Sono, se mi passate l’espressione, un gigantesco tubo che porta da A a B, da uno a uno, da uno a pochi, da uno a molti, a seconda del caso. E in tutto questo parlare del tubo, in tutto questo gridare “Digitale!” come la chiamata alle armi per la battaglia decisiva, si dimentica spesso che nel tubo bisogna far passare qualcosa.

È una dimenticanza rischiosa, specie in ambito HR, dove si dovrebbe innanzitutto aspirare a forgiare il contenuto valoriale della comunicazione: di quella strettamente rivolta ai dipendenti, ma anche di quella rivolta ai potenziali dipendenti (employer branding) e quindi – se ci pensiamo bene – a tutti gli stakeholder che, fuori, lungo il tubo, ci ascoltano. Altrimenti detto, nell’espressione employer branding si dimentica troppo spesso l’importanza del secondo termine: branding, una parola che tiene insieme significati e significanti, valori ed espressioni usate per comunicarli, idee e segni grafici, e che è la sintesi ultima di quello per cui un’azienda stands for, si mobilita. Quando Nike ci dice “Just Do It” sintetizza una tale potenza di significato (“fallo e basta, sentiti libero, corri anche se non sei un atleta”) e significante (otto lettere nere, in un carattere solido e moderno) che noi non possiamo più prescindere da questo messaggio, né quando compriamo un paio di sneakers, né tantomeno qualora dovessimo valutare un’offerta di lavoro di Nike e – per un inevitabile effetto-benchmark – di un’altra azienda.

Chi si occupa seriamente di employer branding lo sa. Sa quanto è facile confondere il successo del brand con le sue caratteristiche di datore di lavoro: sa quante ottime società offrirebbero un ambiente di lavoro ideale a talenti che però non si lasciano attrarre a causa di un brand debole. Sa quanto è difficile creare i sempre più indispensabili microinfluencer (altra parola che sentirete nelle prossime riunioni) se il brand non genera identificazione.

E allora? E allora va bene il tubo, la piattaforma, che si chiami LinkedIn, gamification, stories, Facebook (quello nuovo e progressivo, che intanto – come avrete notato – ha cambiato grafica). Ma prima viene il contenuto. Il tubo ci sarà sempre, un po’ migliore o un po’ peggiore, gratis o a pagamento, molto largo o fatto di tanti tubicini stretti e privati. Mentre un sistema di valori si costruisce in tanti anni di lavoro paziente e coerente: conviene cominciare da quello. Da una sana e onesta domanda: per che cosa la nostra azienda stands for? Per i nuovi consumatori – e ancor più per i nuovi talenti del lavoro – la questione cruciale è questa, non il tubo.

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