Dalla disruption alla cura

Poiché il mondo cambia (e cambierà), le aziende hanno il dovere non solo di formare, ma di accompagnare

“Education, education, education”. Non c’era Tony Blair alla sessione Persone del 48° Congresso Nazionale Aidp, che ho avuto il piacere di condurre. Ma il suo celebre triplice richiamo a investire in istruzione – pronunciato oltre vent’anni fa – sarebbe stato ancora attualissimo. Perché se negli anni ‘90 a minare le certezze della classe media inglese era la nascente globalizzazione, oggi la parola chiave, ben più dura e minacciosa fin dal suono stesso, è disruption, risuonata negli interventi di tutti gli speaker. E la dialettica è ancora tutta qui: da un lato un mondo che cambia senza aspettarci, senza chiedere permesso; dall’altro la cultura – professionale e non solo – come unica risposta possibile.

Disruption, quindi. Che ha molti volti, come ci hanno ricordato dapprima il professor Umberto Bertelè e, il giorno successivo, Enrico Sassoon. È infatti disruption tecnologica quella di Uber e di Airbnb, leader nei trasporti e nella ricettività che non posseggono neppure un’auto o un immobile; ma è disruption (in questo caso geopolitica), anche la Brexit; ed è, infine, disruption valoriale l’enorme crescita dell’attenzione ai temi della sostenibilità, che ha cambiato l’approccio dei consumatori alle aziende, decretando la morte di alcune industrie (pensate alla plastica monouso) ma di contro ha portato all’esplosione dei fondi comuni di investimento Esg (Environmental, social and governance).

È iniziata su questi note la tavola rotonda che ha visto protagonisti Ilaria Dalla Riva (al momento del Congresso Chief Human Capital Officer di Banca Montepaschi: mentre scriviamo è ufficiale il suo nuovo incarico in Vodafone Italia), Paola Liberace Direttrice della Vetrya Academy e Stefano Pozzi Direttore HR del Gruppo Marzotto. Ed è stato proprio quest’ultimo a entrare nel vivo, provocato da un sondaggio (magari poco significativo statisticamente) secondo il quale la professione più sognata dai giovani è l’influencer: «Una cosa è certa – ha risposto Pozzi – facciamo una gran fatica ad attrarre giovani». Eppure la fabbrica non è il luogo sporco e svilente che qualcuno teme, non siamo nella Manchester della Seconda Rivoluzione Industriale. «Le nostre fabbriche sono belle, pulite, tecnologiche. Tuttavia nel solo Sistema Moda Italia, che mette insieme le migliaia di imprese eccellenti del settore, rimarranno vacanti 150mila posti di lavoro nei prossimi tre anni per mancanza di candidati». Problemi seri, se la manifattura rappresenta pur sempre un quarto del Pil italiano ed è la seconda in Europa dopo quella tedesca. E peccato doppio se si pensa – come ha ricordato Pozzi – che la domanda di articoli di lusso, quale il tessile, in tutto il mondo non fa che crescere e crescerà ancora grazie alla tecnologia che «ci permetterà di produrre articoli sempre più vicini ai gusti dei consumatori». È per questo che il Gruppo Marzotto investe nella formazione fin dall’età delle scuole superiori.

«Se è per questo – ha risposto Paola Liberace di Vetrya Academy – noi cominciamo dalla scuola materna». Sembra una battuta, ma non lo è. Vetrya Academy, branch culturale di un’azienda umbra specializzata in tecnologia per reti di trasmissione, ha il compito di fare educazione in ambito tecnologico, a diversi livelli: dalle scuole, agli enti, fino alle aziende del territorio (e non). «La formazione è una forma di investimento sul futuro non solo per l’azienda ma per tutto l’ecosistema di cui l’azienda fa parte, e quindi è un volano di crescita», ha spiegato Liberace.

L’Italia, tuttavia non è un Paese per giovani (parafrasando un celebre romanzo e poi film): la nostra piramide demografica ha quella che viene definita “forma a trottola”, cioè più sottile in basso (e in alto) che al centro. La partita, quindi, si gioca sulle fasce di età dai 40 ai 50 anni (e oltre): composte da persone a cui si chiede di lavorare ancora a lungo – per ovvie ragioni di sostenibilità del sistema pensionistico – e al tempo stesso di sopravvivere alla disruption (di vivere nel Game, direbbe Alessandro Baricco). «Ancora una volta è una questione di formazione», ha affermato Ilaria Dalla Riva. La manager ha insistito sul concetto di reskilling, cioè di ri-formazione. «È un processo – ha spiegato – che ha due facce. Si tratta di gestire il fenomeno dell’ageing, che significa non solo porsi la domanda di come rivitalizzare professionalmente le fasce più anziane del personale ma anche di come farle entrare in contatto proficuamente con le generazioni più giovani (Y e Z) affinché ci sia, appunto, un reciproco vantaggio: esperienza e solidità professionale versus innovazione digitale e voglia di apprendere. Una sorta di reverse-coaching».

E quando si parla di competenze, Ilaria Dalla Riva ha le idee chiare. «Quelle tecnologiche sono importanti, certo, ma paradossalmente invecchiano prima. Per questo io credo che empatia, decisione, negoziazione, lavoro in team siano competenze altrettanto importanti se non di più. Le soft skills sono trasversali per definizione, possono quindi essere usate in ogni campo di attività e perciò sono una sorta di polizza professionale».

Reskilling, quindi. O, come preferisce definirlo Paola Liberace, «reframing, cioè la competenza che consente di ridescrivere sempre l’orizzonte di attività, in una trasformazione digitale che è ormai costante», in un mondo nel quale le aziende che hanno operato la disruption sono già alla fase successiva, quella di innovare in altri settori: Uber ci porta il cibo, Amazon fa da banca ai suoi fornitori, Facebook pensa a una moneta digitale e Google (meglio, Alphabet, la holding di Page e Brin) progetta auto senza conducente. Per questo ci serve qualcosa di più della semplice formazione: serve un percorso di accompagnamento, di vicinanza alle persone, che costituisce una precisa responsabilità sociale delle aziende. Paola Liberace, in conclusione, l’ha definito usando una bellissima parola latina: cura, nel senso di attenzione. E ha riscosso un applauso non di circostanza: sincero, quasi commosso.

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